Il medico deve sapere osservare le relazioni fra l'uomo e il mondo esterno, fra abitudini di vita e malattia. Solo dopo aver colto tutti questi elementi egli potrà risolvere il problema terapeutico, secondo la regione, il clima e l'individuo.
(Nei Jing Su Wen)

Rando Diana - Dietista e Naturopata - Verona
rando.diana@libero.it

lunedì 18 maggio 2009

Il silenzio degli innocenti


Un bambino nasce e l’arma più potente che ha è la sua voce: il pianto. Non esiste niente di più potente al mondo: richiama l’attenzione di tutti gli esseri viventi che gli stanno attorno. Nessuno può fare finta di niente, tutti accorrono per vedere di che cosa ha bisogno: avrà fame? sarà stanco? sarà da cambiare? avrà male?
Non è facile capire di cosa ha bisogno, si va per tentativi. Dopo millenni di vita sulla Terra, l’essere umano non è ancora in grado di decifrare il primo linguaggio di un bambino: il pianto. E così si finisce per fare quello che fanno tutti: si cerca di farlo smettere tappandogli la bocca. Si mette semplicemente una barriera tra noi e il suo pianto: un succhiotto, un biberon, del cibo. E finalmente (nel 99% dei casi) il bambino smette di piangere. E ci si può dedicare ad altro.
Ecco come abbiamo imparato fin da piccoli a non ascoltare più i nostri bisogni, a non capire più le nostre necessità, i nostri desideri, a placare la nostra frustrazione. Basta mettere ancora una volta una barriera: a volte il cibo, a volte una sigaretta, a volte un alcolico, altre volte la droga. Basta poco per placare il nostro pianto interiore, il nostro bisogno di essere capiti, ascoltati, amati. E’ così che nascono i disturbi legati all’alimentazione: anoressia, bulimia, binge eating disorders. E anche tutte le dipendenze: droga, alcol, fumo, sesso, gioco d’azzardo.
E’ vero, forse fin da bambini non siamo stati ascoltati, amati, nutriti. Ma questo non deve diventare un alibi per continuare a farsi del male o per ripetere lo stesso modello genitoriale con i nostri figli. Una volta acquisita la consapevolezza di questo pesante bagaglio che ci trasciniamo dietro dall’infanzia, il passo successivo può essere uno solo: imparare a lasciare andare la zavorra, a mollare la presa per poter liberare la nostra vita dalle catene del passato. L’unico tempo veramente importante è il presente: adesso e qui.
Solo adesso e qui possiamo cominciare ad ascoltare quel bambino che ancora piange dentro di noi. Se anche noi continueremo a chiudere la sua bocca come potrà dirci di cosa ha bisogno per essere felice? Quando tappiamo la bocca al bambino che è dentro di noi continuiamo a non voler sentire il nostro Io che urla e piange perché vuole spezzare le catene del passato, vuole essere libero, vuole rinascere.
Quando non siamo felici nel luogo in cui ci troviamo, sia esso il lavoro, la famiglia, la città in cui viviamo, il senso di insoddisfazione, di frustrazione, di incapacità di effettuare un cambiamento nella direzione desiderata crea uno stato di ansia, di disistima, di impotenza che la maggior parte delle volte viene placato con il cibo oppure con il fumo.
Quando ci arrabbiamo con qualcuno ma non riusciamo a sfogare la nostra rabbia, a dire ciò che pensiamo, ad esprimere quello che sentiamo dentro, la nostra mano, ancor più velocemente del pensiero, afferra il cibo e in un baleno, senza accorgercene, l’oggetto della nostra rabbia è lì, dentro la nostra bocca. E lo mastichiamo, lo stritoliamo, lo sbraniamo come se stessimo facendo tutto questo a qualcuno. E troppo spesso quel qualcuno siamo noi stessi. Allora l’atto non si rivolge più a qualcosa di esterno, ma di interno al nostro organismo: il nostro stomaco, colui che deve digerire tutto, anche i “rospi”, i “mattoni” e le ingiustizie (“questa cosa proprio non mi va giù”, “non lo digerisco”, “ho come un peso sullo stomaco”). Nasce così la gastrite e poi l’ulcera, che corrispondono a mangiare se stessi per non mangiare gli altri.
Quando abbiamo una relazione insoddisfacente, oppure non abbiamo nessuna relazione e ci sentiamo soli, mangiare cose dolci compensa quella dolcezza che ci è sempre mancata nella vita. Ma appena terminata la breve e illusoria sensazione di benessere provocata dall’aumento della produzione di serotonina nel nostro organismo, ripiombiamo nella triste realtà di tutti i giorni: la solitudine. Ed è spesso per tristezza e solitudine che si mangia, si beve, ci si droga, per colmare quel vuoto che separa la vita che vorremmo dalla vita reale.
E poi c’è il triste mondo di chi è sempre a dieta, per rincorrere un progetto futuro di magrezza e di felicità, rappresenta dall’approvazione sociale, dal successo, dall’illusione di poter risolvere tutti i problemi, dal sentirsi finalmente desiderati e amati. Una felicità fittizia, perché fondata su basi instabili, impermanenti, che non riescono a penetrare la profondità del nostro essere. Ma ancora una volta, ciò che non viene tenuto in conto è sempre quel bambino dentro di noi che vuole essere ascoltato e che noi mettiamo nuovamente a tacere costringendolo alla fame. Ma lui si ribella ed urla che non ne può più, che vuole vivere, mangiare ed essere amato. Non ne può più di surrogati. E quando tutto ciò accade, in superficie, nella vita di tutti i giorni che non ci piace e vogliamo cambiare, nasce l’ansia, la paura, il panico di non riuscire più a tenere la situazione sotto controllo. Nascono i sensi di colpa (“ho rovinato tutto”), le autoaccuse (“non riesco a combinare niente di buono”), i rimproveri (“è colpa mia”), la disistima (“non ce la farò mai”): e allora, visto che non siamo proprio capaci di tenere tutto sotto controllo, tanto vale lasciare andare le briglie e correre come cavalli impazziti. Ma alla fine della corsa tutto torna come prima, anzi, peggio. Perché ora bisogna combattere anche contro il senso di fallimento, che può farci scivolare nel baratro della depressione oppure può darci la forza di rideterminare, di ritentare ancora una volta questa sfida. Ma se utilizzeremo ancora l’ipercontrollo per cercare di risolvere la nostra infelicità interiore continueremo a sbattere sempre contro lo stesso muro. Chi dei due vincerà? Sicuramente non noi.
Allora qual’è la strada da percorrere, il mezzo da utilizzare per diventare finalmente felici? Se vogliamo uscire da quel tunnel che si è creato fin dall’infanzia e che sembra segnare obbligatoriamente la strada della nostra vita fino alla fine, dobbiamo fare quello che non ci è mai stato concesso fin dall’inizio: ascoltare. Ascoltare le nostre emozioni, i nostri desideri, le nostre sensazioni: seguire il nostro istinto.
Il nostro istinto non sbaglia mai: è ciò che ci ha permesso di sopravvivere fino ad oggi nella storia dell’umanità, quello che guida l’essere animale che è dentro di noi che, come il bambino, non utilizza la mente razionale per sapere cosa è meglio fare. Se impariamo ad ascoltarlo, ci indicherà esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. È l’unico di cui ci possiamo fidare, perché ci appartiene, fa parte di noi e sa di cosa abbiamo bisogno per essere felici. Per troppo tempo lo abbiamo soffocato pensando che altri potessero saperlo meglio di noi. Ma è giunto il momento di prendere in mano le redini della nostra vita e di iniziare a guidarla personalmente, basandoci sul nostro istinto, basando le nostre scelte su ciò che sentiamo che ci fa star bene e non sulle aspettative degli altri. Perché le uniche persone veramente interessate alla nostra felicità siamo noi stessi.